pubblicato il 15 marzo 2012

La fibra di cocco come substrato di coltivazione

In orticoltura, floricoltura e in fuori suolo. Questo materiale può essere un'alternativa alla torba.

TAGS: Agronomia

    La fibra di cocco, chiamata anche "coir o coir dust", è comparsa recentemente in orticoltura e in floricoltura e per la coltivazione fuori suolo.
Questo materiale può essere utilizzato in purezza o in miscela e rappresenta un'alternativa alla torba, grazie alle sue caratteristiche.
   La palma da cocco (Cocos nucifera L.) è una coltura molto diffusa nelle regioni tropicali e vede tra i suoi maggiori produttori Sri Lanka, Filippine, India, Indonesia, Messico, Costa Rica, Costa d'Avorio e Guinea (Evans et al., 1996; Noguera, 1998).
   Lo Sri Lanka, con 2.5 miliardi di noci di cocco, produce 70.000 tonnellate di fibra secca per anno, delle quali circa il 75% finisce negli scarti dell'industria dei tessuti; la risorsa totale in fibra in questo paese è stimata in 3 milioni di tonnellate (Benington et al., 1994), per cui lo Sri Lanka è leader mondiale nella commercializzazione dei residui della fibra di cocco come substrato di coltivazione (Meerow, 1994).

Il suo impiego come substrati di coltivazione
   La tendenza attuale nel settore dei substrati per la coltura in vaso a promuovere materie prime alternative alla torba valorizzando prodotti organici di scarto, vedrà probabilmente la fibra di cocco come protagonista (Evans, 1997), grazie alla rinnovabilità di tale risorsa, alla assenza di impatto ecologico e alla possibilità di essere facilmente riciclata al termine del ciclo di produzione.
   Per raggiungere tali scopi occorre risolvere alcuni problemi legati alle variazioni della concentrazione di sali in materie prime di diversa provenienza, alla distanza tra zona d'origine e produzione e zona di consumo, che dà vita a costi di trasporto elevati, alla variabilità delle caratteristiche del materiale in funzione dell'origine e della tecnica di lavorazione utilizzata.
   In alcuni casi poi si può assistere al mancato rispetto del tempo di "maturazione" della materia prima con immissione sul mercato di fibra di cocco eccessivamente fresca da parte dei produttori, o nel caso contrario di un prodotto vecchio; tali fattori incidono in entrambi i casi sulle proprietà fisico-chimiche, quindi sulla qualità del substrato finale.
   In Europa la domanda di fibra di cocco è distribuita durante tutto il corso dell'anno per cui si rendono necessari trattamenti per uniformare l'umidità del prodotto soggetto nei paesi di origine al clima tropicale, interessato dal susseguirsi di periodi di piogge torrenziali (monsoni) ad altri di secco, con il rischio di gravare tale materia prima di un ulteriore costo supplementare da aggiungersi al prezzo già elevato.
   Il venir meno di questi problemi è destinato a dare slancio al mercato della fibra di cocco come componente dei substrati per la coltivazione in vaso, visto l'ottimo comportamento agronomico della stessa che, secondo Evans (1997), permette di ottenere risultati molto simili alla torba e, in alcuni casi, addirittura superiori, con incremento del peso fresco della parte aerea della pianta in essa coltivata, maggiori dimensioni e, in alcune specie, maggiore sviluppo delle radici.

La lavorazione della fibra di cocco
   La fibra di cocco proviene dal mesocarpo della noce della pianta stessa, non dal guscio ma dall'involucro fibroso della noce, che costituisce un prodotto di scarto. Una palma produce annualmente circa dodici frutti, per cui, considerando che i paesi tropicali contano miliardi di piante, si può facilmente comprendere la straordinaria capacità produttiva di tali regioni, dove è possibile trovare enormi quantità di involucri fibrosi da destinare al processo di produzione della fibra.
   Il mesocarpo deve essere trattato mediante un particolare processo che prevede la messa in pratica di tecniche diverse; spesso le fabbriche che oggi producono fibra da destinare all'utilizzo come substrato colturale sono in realtà vecchie strutture che hanno iniziato la lavorazione di tale materiale per altri scopi e hanno compreso oggi le potenzialità di tale settore.
   Nella prima fase i mesocarpi sono raccolti, trasportati allo stabilimento e immersi in tinozze piene di acqua per essere ammorbiditi e preparati alle lavorazioni successive. Compiuta tale operazione, gli involucri sono convogliati in una sorta di mulino a martelli: si tratta di un sistema che si limita a frantumare i mesocarpi, senza macinarli, ottenendo così una serie di sottoprodotti, tra cui le fibre lunghe, che hanno costituito il primo elemento di interesse per le aziende che hanno intrapreso tale lavorazione.
   Eliminate tali fibre, ciò che rimane è un cumulo di residui formato essenzialmente da tessuto midollare (o polvere), fibre corte e medie e altro materiale, il tutto di qualità inferiore, non abbastanza lungo per essere destinato alla produzione di cordami e stuoie.
   Il processo prevede a questo punto la setacciatura del materiale tramite un vaglio rotante per separare dalla polvere la maggior parte della fibra residua, ottenendo così un prodotto che viene generalmente indicato come "coir dust", ossia fibra di cocco in polvere.
   Dopo la setacciatura, quest'ultima viene asciugata (fino al 25% di umidità), quindi, a seconda dell'azienda produttrice, viene confezionata in sacchi e spedita a destinazione oppure compattata in mattonelle o in pani compressi. A questo riguardo si deve sottolineare come siano possibili varie unità di compressione, tuttavia, sebbene non esista una regola univoca, in generale si adotta una riduzione del volume secondo un rapporto di 6/1, 7/1, fino a 9/1. Con rapporti troppo elevati - 14/1 o 15/1 - si rischia di ottenere un prodotto finito troppo solido, un vero e proprio "legno di cocco".
   Una mattonella che una volta in acqua non si espande o si espande in misura limitata indica con tutta probabilità una compressione eccessiva, al contrario se il materiale incrementa il proprio volume piuttosto in fretta e si gonfia sarà indice di inadeguata compressione.
   Considerando le proprietà fisiche e fisico-chimiche della fibra di cocco, la bibliografia si mostra per taluni parametri contraddittoria; le discordanze possono essere giustificate alla luce dell'eterogeneità del materiale, che assume caratteristiche diverse in relazione a fattori quali origine del prodotto e dimensione delle fibre.
   Il pH (in acqua), compreso in generale tra 5 e 7, è comunque superiore a quello della torba ed è ottimale per la maggior parte delle colture neutrofile, senza la necessità di ricorrere a correttivi (CaCO3). La capacità di scambio cationico assume valori compresi tra 30 e 100 meq/100g (valori riconducibili a una torba bruna) e garantisce al materiale un elevato potere tampone.
   Si osserva in taluni casi una salinità elevata a causa di un tenore importante in potassio, sodio e cloro dovuto alla crescita della palma da cocco in prossimità del mare; il contenuto in sali è tanto più negativo quanto più questi sono rilasciati durante la coltura, nel periodo di fertilizzazione.
   La conduttività elettrica misurata per la fibra di cocco fresca con il metodo di Sonneveld (1:1.5 v/v) varia da 0.3 a 2.9 mS/cm (Evans et al., 1996), mentre per il materiale destinato alla costituzione di substrati si consiglia una EC inferiore a 0.5 mS/cm.
   Il livello dei sali solubili è probabilmente il principale fattore di qualità o elemento di controllo della stessa: una salinità troppo elevata, e in particolare una eccessiva dotazione in sodio e cloruri, può infatti porre seri problemi a secondo del tipo di coltura, dello stadio di crescita o della situazione in cui si opera. Pur non sottovalutando il problema, Evans (1997) ritiene che fibra di cocco con livelli di cloruro anche di 600 - 700 mg/l possa garantire comunque ottimi risultati se si pratica irrigazione per aspersione o una tecnica di dilavamento in grado di diminuire drasticamente la concentrazione dei sali nell'arco della prima settimana di coltivazione. La concentrazione degli ioni fosfato è equivalente a quella di una torba.
   Per quanto concerne le caratteristiche fisiche, il contenuto di aria a pF1 è generalmente paragonabile a quello di una torba bionda (Garcia et al., 1994), anche se, considerando gli studi di diversi ricercatori, si possono rilevare valori estremamente variabili (addirittura dal 9 al 92% del volume): l'origine del prodotto e la dimensione delle fibre sono due fattori che possono in qualche modo spiegare tale forte eterogeneità.
   La capacità di ritenzione idrica è maggiore rispetto alla torba di sfagno; in generale, secondo Evans, la prima trattiene acqua in misura pari al 750-900% del suo peso, mentre la seconda pari al 400-800%. La fibra di cocco si inumidisce molto più facilmente rispetto alla torba, nel cui caso spesso risulta difficile l'imbibizione successiva alla disidratazione, a meno che non si ricorra ad agenti esterni.
   Anche in questo caso non mancano i pareri contrari, generalmente smentiti dalla maggior parte degli studi, ma ancora presenti in bibliografia: Prasad (1997), per esempio, indica la superiorità della torba nella ritenzione idrica rispetto al cocco.
   Le variazioni nel corso del tempo delle caratteristiche fisiche della fibra di cocco sono generalmente meno importanti rispetto alla torba di sfagno, per cui, tale fattore, può indicare una maggiore bio-stabilità nel corso di utilizzo; non è stata evidenziata, in 120 giorni di coltura, la perdita di materia secca, quindi si ottiene una minore contrazione del substrato nel contenitore a fine ciclo (Lemaire, 1996).
   La degradazione microbica della fibra di cocco provoca l'immobilizzazione di una quota importante di azoto (da 47 a 274 mg/l) e apporti di questo elemento si rendono necessari nel corso della coltura (Grantzau et al., 1993).
La capacità di scambio cationico varia in funzione dell'età del prodotto, in relazione al processo di decomposizione della sostanza organica (Evans et al., 1996).
   La bassa densità apparente, in bibliografia compresa tra 0.025 e 0.09 g/cm³, rende facile il trasporto e la manipolazione; tale caratteristica non crea comunque problemi di ancoraggio alle radici e a tal proposito si è notato una radicazione più rapida in pomodoro collegata a una maggiore produzione (Garcia et al., 1994).
   Non è stata osservata alcuna tossicità da parte del materiale in questione, così come la presenza di semi di infestanti e di germi patogeni che non sono mai stati messi in evidenza (Garcia et al., Meerow, 1994).
Tratto dalla tesi di laurea di Alberto Lanzi - Università di Pisa